“La solitudine può essere una tremenda condanna o una meravigliosa conquista”
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci è tornato. Lo ha fatto dopo una lunga assenza, dovuta alla sua malattia che lo costringe in sedia a rotelle. E forse proprio per questo con “Io e te” – sceneggiatura tratta dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti – ci regala una serie di inusuali inquadrature, quasi a voler compensare la sua immobilità con l’occhio della telecamera che va ovunque, si infiltra nelle prospettive più improbabili e nei dettagli più nascosti alla banalità.
‘Io e te’: sono due solitudini che si incontrano, certamente non per caso. Due anime sotto la lente d’ingrandimento. Lorenzo, quattordicenne un po’ complessato che va a nascondersi per una settimana in cantina invece di andare in gita con la scuola, invece di socializzare, come vorrebbe la madre molto, troppo premurosa. Di lì a poco in questo rifugio fuori dal mondo e fuori dal tempo, comparirà Olivia, la sorellastra di 25 anni, problemi di droga e crisi di astinenza, colei che lo farà svegliare dal torpore della tana e della vita.
La cantina è un tòpos letterario che da tempo è comparso nella letteratura, dalle Memorie del sottosuolo di M. Dostoevskij, a Fight Club di Chuck Palahniuk: luogo dell’inconscio e del rimosso freudiano per eccellenza, in questo film svolge la stessa identica funzione. Ed è proprio in queste ‘quattro mura’, dove ogni dettaglio diventa importante, che Lorenzo cambia. Come in ogni romanzo – o film – di formazione che si rispetti, avviene il mutamento, l’evoluzione, positiva o meno. Non è certo la prima volta che Bertolucci tratta questo tema, anzi, come un fil rouge lo ritroviamo in molti suoi capolavori: da “Io ballo da sola” a “The dreamers”, fino all’epopea di “Novecento”, che intreccia dolcemente le vicende storico-politiche a quelle personali di Alfredo e Olmo, dall’infanzia alla maturità.
Ci ritroviamo tanto anche il corpo in “Io e te”, sempre protagonista pur lasciando da parte il sesso – almeno apparentemente – e ci ritroviamo un personaggio femminile dalla voce sporca e dal comportamento ambiguo ma non per questo meno deliziosa.
Nel piccolo universo dove è girato quasi tutto il film, la cantina, si ritrovano tanti significati dove Bertolucci ci vuol far posare lo sguardo: l’animaletto che gira ossessivamente all’interno della teca, un po’ come si fa a 15 anni quando il proprio mondo è la propria camera, da dove non sempre si vuole uscire; il viso del protagonista per una volta così vero, così pieno di ‘imperfezioni’ ma che in realtà svelano solo una cosa: l’autenticità, in mezzo a un’industria cinematografica dove la norma è un’immagine patinata e perfetta.
Un’azzeccata colonna sonora anch’essa significativa e importante, tassello fondamentale nella globalità del film, come sempre nelle opere di Bertolucci, dai Cure di ‘Boys don’t cry’ a un raro David Bowie che fa ri-scoprire una rarità: ‘Space Oddity’ cantata nella versione riscritta da Mogol in italiano, e che è il sottofondo a una delle scene più belle e toccanti del film. Il resto, composto per l’occasione da Franco Piersanti.
E alla fine del film, non possiamo che cogliere appieno il senso di uno dei più contrastanti stati umani: la solitudine, spesso meraviglia e dolore allo stesso tempo, inestricabile voglia dell’essere umano di fondersi con l’altro e allo stesso di tempo di staccarsi da tutti e da tutto. È solo quando c’è il desiderio di staccarsi soprattutto da sé stessi, che si attua l’unica e vera accezione negativa di solitudine, quella che in questa storia è capitata a Olivia. Quella di Lorenzo invece è la solitudine così come la intende il sentire comune, è l’isolamento, che non consuma, che non compra, che non si fa vedere, ma che lavora duramente per l’unico vero obiettivo che non si trova in vendita da nessuna parte: la conoscenza di sé.