
“Scacco matto” deriva dal persiano shāh māt, e sta a significare “il re è morto”. Anche chi non gioca a scacchi dovrebbe sapere che la scacchiera è un campo di battaglia, e che le pedine sono eserciti avversari. Per Bobby Fischer, uno dei più celebri campioni del mondo in questa disciplina, “gli scacchi sono una guerra condotta sopra la scacchiera. L’obiettivo è schiacciare la mente dell’avversario”.
Questo dovrebbe bastare a rendere l’idea della violenza, seppur allegorizzata, che è in qualche modo insita in questo gioco. Se non bastasse, c’è il libro che ha scritto nel 1993 Paolo Maurensig ed edito da Adelphi, e che ricorda nell’incipit come anche l’invenzione del gioco degli scacchi sembra sia legata a un fatto di sangue.
Maurensig però fa molto di più: attraverso quattro livelli di narrazione che si intrecciano tra loro, riesce a costruire un thriller perfettamente equilibrato, che inizia in età contemporanea per poi arrivare ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, nel campo di concentramento di Bergen-Belsen.
Uno dei protagonisti, Hans Mayer, mentre sta viaggiando in treno, racconterà questa storia a un viaggiatore molto particolare che si trova nel suo stesso scompartimento, e anche a noi: verremo così a sapere del suo Maestro Tabori, e anche Tabori stesso, narratore onnisciente, racconterà una storia al lettore, che riuscirà a riallacciare il filo rosso dipanatosi dalle prime pagine.
La variante di Lüneburg è dunque una storia di vendetta e di feroci combattimenti, che avvengono fuori e dentro la scacchiera, fino a capire che a volte quelle battaglie possono crudelmente sovrapporsi, e che ogni mossa potrebbe essere quella fatale: shāh māt.
Scrive Maurensig: “Alëchin sosteneva che gli scacchi sono un’arte, mentre Capablanca li vedeva come pura tecnica; per Lasker, invece, gli scacchi significavano lotta”.
Il romanzo, come ammise poi Maurensig, trae ispirazione dalla “Novella degli scacchi”, l’ultimo racconto dello scrittore Stefan Zweig prima del suo suicidio nel 1942. Per scriverlo, Zweig prese spunto dai suoi ultimi giorni di vita in Brasile, dove si era rifugiato per fuggire al nazismo, e in cui l’unica distrazione era una scacchiera.